“Essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione perfino biologica”. Salvador Allende
Il Vietnam d'Italia
Oltre le 309 vittime, i 1600 feriti ed i 10 miliardi di danni: la tragedia del terremoto è qualcosa di indefinibile
Il VIETNAM D'ITALIA - Comprendere quello che è accaduto quella notte del 6 aprile 2009 non è un'operazione semplice. Anzi, a dirla tutta, non lo è affatto persino per chi l'ha vissuta veramente. Entrano in gioco i meccanismi di autodifesa della mente. C'è l'inevitabile effetto rimozione che subentra quando non si riesce ad accettare un trauma così grave. Che, poi, è soltanto temporaneo poichè la realtà prima o poi torna a galla. E basta solo un ricordo, una sinapsi, ed ecco che ti ricordi ogni cosa. Violenta come lo shock di una mitragliatrice che ti riporta lì, in mezzo a quella notte di primavera, tra i monti d'Abruzzo, nel silenzio e le grida della terra che trama, tra le case ed i palazzi che ti crollano addosso e tu che non hai il tempo nemmeno di respirare. E' l'istinto che ti ha salvato. Tu ce l'hai fatta, sei uscito vivo dalle macerie, ma molti tuoi amici sono rimasti lì. Uccisi dalle pietre crollate addosso il tuo corpo, complice uno Stato inguardabile ed una parte di te è rimasta sepolta lì con loro. Ecco se riesci a fare questo sfrorzo umano, forse riuscirai a comprendere tutto quello che è stato il 6 aprile nella zona del cratere. Io c'ho messo tre anni e non so ancora bene come... Un tragedia non può essere spiegata solo attraverso i numeri, che soltanto a leggerli ti viene paura: 309 morti, 1600 feriti, 10 miliardi di euro di danni ed una città secolare di meraviglie storiche, il Capoluogo d'Abruzzo, L'Aquila, completamente rasa al suolo. E non basta, bisogna andare in più in profondità: dentro le vite di ognuno dei sopravvissuti a quella notte e tutto quello che c'è stato e che c'è.
UN PASSO IN AVANTI - In questi tre anni ho avuto la fortuna di conoscere molti aquilani, di tutte le età, e di provare a "sentire" quello che sentivano loro dopo la tragedia del terremoto. Non è stato facile confrontarmi con loro: erano diffidenti, presuntuosi, fragili e, pur parlandoci spesso, non riuscivo mai a legare. Forse era un mio problema ma veniva sempre fuori, in un modo o nell'altro, quel maledetto campanilismo. Non mi capacitavo, anche, del fatto che fossero così - apparentemente - anestetizzati allo scempio criminale che si stava consumanto nella loro terra. Ripeto: ne ho conosciuti tanti e tutti, ognuno a suo modo, lasciavano trasparire quel dolore inafferrabile che li rendava distanti e diffidenti verso tutto. Qualche settimana fa sono uscito con un distino signore aquilano, sulla cinquantina, conosciuto in un bar del centro. Abbiamo passato la serata insieme e tra un bicchiere e l'altro mi ha detto: «Ci hanno sparpagliati per evitare che ci ribellassimo allo schifo che stanno facendo della nostra terra». Da allora non ho smesso di riflettere su quelle parole. L'Aquila è il Vietnam d'Italia ed i suoi abitanti sono come i reduci che tornano a casa ma non trovano quello che avevano lasciato. Cacciati dalla loro terra come gli ebrei dall'Egitto ed imprigionati dentro stanze in affitto, hotel, casette prefabbricate e nelle "new town" come prigionieri di un campo di concentramento, dove l'aguzzino è lo Stato che, invece, ha promesso di aiutarti. Uomini, donne, anziani e bambini sparpagliati, qua e là, per impedire che potessero organizzarsi, parlare e trovare la forza di ribellarsi all'assurda situazione che era diventata la loro vita. A tre anni dal terremoto non è cambiato nulla: le macerie sono lì, la città è sempre fredda, buia e silenziosa mentre loro continuano a ridere pensando ai grossi affare. Bene! Oggi ho capito che la colpa è anche mia e chido scusa a tutti i miei fratelli abruzzesi perchè, finchè L'Aquila non sarà restituita agli aquilani, nessuno di noi potrà sentirsi più al sicuro ed orgoglioso della propria esistenza. Siamo abruzzesi, per la miseria! Ricostruiamola!
Il (Sub)direttore