“Essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione perfino biologica”. Salvador Allende
Claudio Capone: «A 50 anni appendo le scarpette al chiodo»
Lunghissima intervista a "Moses", uno dei cestisti più famosi della nostra regione. Domenica a Chieti chiuderà la sua lunghissima carriera
CLAUDIO CAPONE: A 50 ANNI APPENDO LE SCARPETTE AL CHIODO Mi chiamano tutti ‘Moses’ perché da piccolo prendevo sempre tutti i rimbalzi, proprio come Moses Malone nel suo campionato NBA. Ha inizio così una splendida chiacchierata con Claudio Capone, per 30 anni orgoglio del basket abruzzese, che domenica prossima 25 gennaio chiuderà a 50 anni la sua carriera di giocatore. Lo farà in un modo del tutto originale: non come si potrebbe pensare, vista la sua gloriosa carriera in varie squadre di serie A, con un commiato sfavillante, bensì riunendo tutti i suoi amici del basket che, come dice lui stesso, “mi hanno aiutato a crescere e diventare quello che sono stato sui campi di tutt’Italia”.
Al Palaleombroni di Chieti, subito dopo il termine dell’incontro di Lega Silver tra la Proger Chieti e la Paffoni Omegna, si sfideranno due squadre di ex giocatori tra i più rappresentativi del periodo giovanile di Claudio Capone, proprio tutti coloro che l’hanno sempre adorato dai tempi del minibasket a quelli delle sue gesta più famose in serie A.
L'INTERVISTA. L’incontro odierno con Moses ripercorre tutto il periodo da lui vissuto nel mondo del basket, da quel giorno in cui, giocando da solo contro un muro con una racchetta, venne invitato da un suo amichetto a presentarsi in una palestra della caserma Berardi, dove c’erano i corsi di minibasket tenuti da due giocatori della Rodrigo Chieti, che rispondono al nome di Stefano Pizzirani e Cesidio Di Masso; un periodo lungo, fatto di tante gioie e soddisfazioni personali, con frequenti raffronti con quella che è oggi la realtà cestistica nazionale e, soprattutto, locale. Per quanti non conoscessero i trascorsi della città di Chieti, bisogna premettere che dall’inizio degli anni ‘70, grazie all’esistenza di un campo di basket all’aperto all’interno della Villa Comunale che, insieme con altri di minore spessore architettonico, richiamava centinaia di giovani a questo sport meraviglioso, si era soliti ospitare nel mese di giugno un torneo internazionale a quattro squadre, che rappresentava una vetrina importantissima per i giocatori d’oltreoceano che cercavano ingaggi importanti in Europa. Tale torneo, aveva sempre più la magia di fortificare quel movimento che via via si andava creando tra i giovani cittadini, i quali accedevano gratuitamente e ad ogni ora a quel campo, rendendolo fondamentale ed indispensabile per il raggiungimento dei propri obiettivi sportivi. Verso la metà degli anni ’80 questo rettangolo di gioco venne sempre più trascurato dalle scellerate amministrazioni dell’epoca, rendendolo totalmente inagibile e togliendo ai giovani ed ai cittadini tutti, un’incredibile possibilità di sana crescita sportiva. Rapidamente tramontò anche tutto il periodo del basket, mai abbastanza sostenuto dalle amministrazioni e dagli imprenditori locali, fin quando un costruttore di Chieti, guarda caso uno di quei ragazzini che giocavano a basket negli anni ’70, Gianni Di Cosmo, attuale presidente della Proger Chieti, decise di prestare le sue energie e la sua passione per il ritorno di tale movimento.
Parte proprio dai giorni nostri il racconto di Moses:
Vedo molto bene Di Cosmo, l’unico imprenditore che ha preso a cuore le sorti del basket teatino, c’è da dargli un grosso merito! Il fermento a Chieti è tornato ad essere quello di sempre, è la storia che lo dice; quello che bisognerebbe cercare di aggiungere è una maggiore spinta a livello comunicativo, per far sì che possano ricrearsi, nonostante il cambiamento vertiginoso della società civile, quelle situazioni tipiche di un piccolo centro. A tutti noi cinquantenni capitava di passeggiare per la nostra città ed incontrare in modo fortuito coloro i quali, la domenica, erano i protagonisti sul campo di basket ed ai quali andavamo a chiedere autografi, foto, gadgets o anche un semplice saluto. Queste sono cose che danno una grossa carica al ragazzino e, congiuntamente, cementano quel movimento di basket in città, perché Chieti vive di queste cose quando le si offre l’opportunità di viverle. Non basta solo l’attuale presidente per compattare, come peraltro sta facendo da anni, un’intera città. C’è bisogno di più sostegno per ricreare quel fermento particolare, manca non solo il campo della Villa Comunale ma anche tutti gli altri campi all’aperto, compreso quello del Sacro Cuore dove sono cresciuto. Sono stati dei punti di riferimento fondamentali per la nostra formazione, perché erano i luoghi in cui tutti noi provavamo ad emulare le gesta dei nostri idoli, solo dopo si andava ad allenarsi con la squadra; tutte le sfumature e le astuzie le abbiamo imparate confrontandoci su quei campi. Così come i nostri beniamini che, nella loro semplicità, sapevano coinvolgere e trascinare chiunque. Chi non ricorda a Chieti le gesta degli atleti nel triennio di serie A?
Ci sono stati anche ottimi allenatori a Chieti, da Lasic a Marzoli, da Vandoni a Trivelli, solo per citarne alcuni.
Certamente! Oltre alla cultura del sacrificio per raggiungere risultati importanti, essi portavano sempre esempi a noi giovani su ciò che era successo in campo la domenica con la prima squadra, era una continua analisi che, unita a paragoni di vario tipo, portava a noi insegnamenti e riflessioni. Senza videocassette o Youtube del caso, siamo stati educati ad analizzare ogni situazione della nostra prima squadra, dalla difesa fatta in un certo modo ad un tiro da un angolo piuttosto che da un altro. Ecco, tutto questo oggi non si fa’, non ci sono punti di riferimento con tale personalità, manca questo collante tra prima squadra e squadre giovanili, tra squadra e pubblico. Proprio il pubblico di Chieti, notoriamente corretto ma molto passionale, oggi tende a concepire il basket come uno sport da salotto e non più come quella cosa che ti viene dall’anima.
E’ importante anche come il movimento dei piccoli sta rinascendo.
Tutto parte dal minibasket, i piccoli cercano sempre di copiare qualcuno più grande, e questo è un fatto estremamente positivo. Bisogna però dare un seguito immediato ed una concretezza a tutto ciò. Anch’io che oggi alleno i giovani, mi accorgo subito se stanno provando ad emulare qualche campione visto in TV; cerco però di focalizzare la loro attenzione soprattutto su cose di fondamentale importanza, da una semplice uscita da un blocco ad un terzo tempo fatto dal lato opposto e con la mano opposta.
Abbiamo parlato di alcuni coach del passato, ma di recente Chieti ha iniziato a risorgere grazie anche al contributo di Sorgentone. Il suo lavoro a Chieti è stato ai miei occhi eccellente. E’ uno dei pochi in Abruzzo capaci di essere un ottimo coach ed un sapiente manager, capace di compattare un’intera squadra. C’è molto bisogno da noi di figure di questo tipo ed io dico che ce ne sono eccome!!! L’importante è andarle a scovare e farne tesoro, muovendosi con un unico obiettivo in comune. C’è bisogno di un gruppo compatto che resista nel tempo, e questo ce lo dice la storia. E’ normale che a Chieti in passato ci siano state grosse soddisfazioni, perché il gruppo è stato lo stesso per quasi un decennio, dalla serie B alla A, ed era un gruppo granitico. Nonostante tutte le difficoltà economiche e sociali che attraversa il nostro paese attualmente, prenderei come esempio proprio il nostro passato, unendolo con le attuali realtà importanti, come possono essere Reggio Emilia o Trento.
I tuoi esordi nel mondo professionistico, prima delle Juve Caserta in serie A, partono comunque da Chieti…
Sì, sì, esordii in serie B grazie a Nino Marzoli e vi giocai per 4 anni con ottimi risultati, fino a quando ci fu l’osservatore di Tanjevic che venne a vedermi in incognito per diverse volte. Solo pochi giorni fa’ ho saputo che un giorno, dopo avermi visto giocare, telefonò al mister dicendogli: "ti ho trovato la guardia che cercavi". E’ normale che, a distanza di tanti anni e dopo tutte le soddisfazioni avute, esser venuto a conoscenza di un aneddoto del genere mi da’ ancora una carica vitale impressionante. Io avevo solo avuto una comunicazione dalla società che la squadra casertana era interessata a farmi fare un provino, ma non sapevo che Giancarlo Sarti in persona aveva già deciso che di lì a poco sarei diventato un giocatore titolare della Mobilgirgi Caserta, in serie A1.
Com’è stato l’impatto con Caserta città e con la Mobilgirgi? Cosa hai fotografato al tuo arrivo in quel nuovo ambiente?
La città non sconvolse più di tanto la mia persona, in quanto era molto simile a Chieti, un piccolo centro con persone molto genuine, esattamente come qui da noi. L’impatto con la squadra fu fantastico sotto tutti i punti di vista, al di là della novità che rappresentava per me. Arrivai in un ambiente già molto solido e compatto, dove già da tempo Tanjevic stava facendo un lavoro strepitoso. C’erano persone stupende, i giocatori erano fantastici, ricordo tutti con grande affetto, da Dell’Agnello a Nando Gentile, da Generali a Oscar, tutta gente favolosa. Era un ambiente molto carico che era già pronto per fare qualcosa di molto grande, così come era un piacere ascoltare ogni singola parola pronunciata da quel grandissimo coach. Mi diede subito fiducia, così come tutto l’ambiente, buttandomi nella mischia a vent’anni per almeno 20 minuti ogni partita, compresa la finale scudetto contro Milano in cui mi toccò marcare Mike D’Antoni o la finale di coppa Korac contro il Bancoroma. E’ stato un susseguirsi di emozioni positive, una su tutte la presenza, a mia insaputa, della mia famiglia, durante la partita d’esordio al Palamaggiò di Caserta. Dopo qualche azione di gioco, il mio papà fu costretto a portar via mia madre che stava svenendo per l’emozione… Oppure posso raccontare il mio primo ritiro in Valtellina, cosa che apparentemente dice poco e niente… invece si verificò all’improvviso uno di quegli episodi destinati a cambiarti la vita per sempre… una mattina da noi atterrò un elicottero con dentro un certo Michael Jordan, che avrebbe preso parte la sera stessa all’amichevole programmata tra Trieste contro la nostra squadra… Michael giocò un tempo con i triestini ed uno con noi e lascio immaginare cosa provai in quei momenti. Me lo ritrovai di fianco nello spogliatoio che stava provvedendo alle fasciature delle proprie caviglie, subito dopo in campo insieme… E’ normale che queste cose ti fanno crescere sotto tutti i punti di vista. In quei pochi attimi ricordo che ho cercato di rubargli più segreti possibili, lo studiai nei minimi dettagli, sapevo che era un’occasione da non perdere. Durante un’azione di gioco volò come suo solito per una schiacciata e frantumò un tabellone, con conseguenze abbastanza serie per due nostri giocatori, uno dei quali ebbe la lesione del tendine di una mano, al punto che il nostro coach sbraitò per tutta la sera, contro tutto e tutti, soprattutto contro l’America e gli americani… Sai, qui ci rientra anche la famosa rivalità che c’era tra le squadre statunitensi e quelle slave, due scuole di pensiero diverse ma entrambe eccellenti. Credo, sarei rimasto almeno per un decennio a Caserta se Tanjevic non fosse andato via.
Dopo 2 anni a Caserta scegliesti Verona, in serie B. Cosa ti spinse ad una scelta del genere?
Terminata a Caserta l’era Tanjevic, le scelte della società cambiarono ed io non mi sentii più valorizzato come sapevo di meritare. Scelsi Verona perché aveva grosse ambizioni, come poi concretizzatesi, di salire in serie A, avendo allestito una squadra con i vari Brumatti, Malagoli. E’ stata una scelta istintiva, che avrei potuto anche pagare cara, in quanto il rischio effettivo di uscire dal grande giro c’era. Avrei potuto temporeggiare ed aspettare qualche altra richiesta da squadre di A, ma non mi pento affatto della scelta fatta. Sono stato per due stagioni a Verona, intervallate da un anno a Desio con Dido Guerrieri. Fino al cambio strutturale che decise Alberto Bucci, non tanto per le mie attitudini, quanto perché voleva rinforzare fisicamente la squadra.
Da Verona a Montecatini insieme con Mario Boni…
Eh sì, sono stati 3 anni indimenticabili. Insieme con Mario Boni c’erano Clemon Johnson e Chris McNealy. Ottenemmo la promozione in A1 giocando in casa il derby contro la rivale Pistoia, davanti a 5000 persone in delirio. Il pubblico cantava uno slogan che aveva inventato su di me grazie alle mie bombe da tre punti. Sono cose che rimangono attaccate alla pelle, non vanno mai via. Dopo tre anni, a malincuore, andai via per esigenze di mercato. Mi trovai così a Forlì.
Cosa successe di particolare a Forlì?
Una cosa pazzesca, si realizzò un sogno che cullavo negli anni dei campi all’aperto: mi ritrovai alla corte di coach Piero Pasini con il campione NBA Darryl Dawkins, che fino a pochi anni prima potevo ammirare sul settimanale Super Basket o, casualmente, in Tv quando iniziavano a trasmettere qualche partita d’oltreoceano. Arrivò per la preparazione atletica con un peso vicino ai 145 kg e con un catenone d’oro al collo. Mi colpì la sottigliezza delle sue gambe e, soprattutto, vederlo correre come un razzo, oltre che tirare in allenamento con una precisione incredibile. In partita invece era totalmente ligio al suo ruolo, da fuori non tirava quasi mai… ma schiacciava sempre!!! Fu un’annata conclusasi ad un passo dalla promozione in A1, a causa di un mio tiro errato all’ultimo secondo sul terreno di Sassari.
Un tiro errato che presagiva qualcosa di particolare negli anni successivi…
L’anno successivo andai in quel di Arese, squadra sulla quale nessuno avrebbe scommesso un centesimo bucato sulla promozione in serie A1. Era la classica squadra operaia con Sorrentino, Aldi, Ansaloni, Fumagalli… tutti nomi pressoché sconosciuti… Fu il top della mia carriera, con oltre 20 punti di media a partita e il riconoscimento di essere tra i primi 10 tiratori in quella stagione. Avevo Fabrizio Frates come coach, con cui mi trovai benissimo. Andammo in serie A1 grazie ad un mio tiro a 3 secondi dalla fine nell’ultima sfida play-off contro Cantù. Un’annata magica!!!
Cosa successe in seguito? Arrivarono le burrasche…
L’anno successivo rimasi senza ingaggio, a causa di una cattiva gestione del proprietario del mio cartellino. Mi ritrovai per diversi mesi senza squadra, poi tornai per un paio di mesi a Forlì per essere girato subito dopo a Fabriano, dove trovai coach Perazzetti. Fino alla parentesi romana con Attilio Caja. Quella capitolina fu una stagione molto strana, in cui vennero fatte delle scelte da parte del coach che mi costrinsero, a torto, a rimanere ai margini. Ci fu, è vero, una partita dei quarti di coppa Korac in cui mi superai, sempre partendo dalla panchina, ma fu un episodio sporadico, cui non fu dato seguito. Finii l’anno successivo a Pozzuoli, in un ambiente ormai alla deriva. Chiusi con una retrocessione e tanta amarezza.
L’atleta cade ma si rialza più forte di prima… chi ti conosce lo sa bene…
Eh sì, quando tutto sembrava volgere al termine arrivò un’occasione favolosa: l’avventura con Avellino. Trovai un ambiente eccezionale, sembravo un avellinese nato. Nonostante il primo fu un anno difficile dal punto dei vista dei risultati (ci salvammo all’ultima giornata), quell’ambiente aveva la capacità di farti sentire al settimo cielo appena entravi in campo per fare il riscaldamento. Ero tornato in un ambiente di provincia, familiare, come quello in cui ero cresciuto, con le persone che ti erano sempre accanto. Il lupo era la loro mascotte ed io ero per loro il vero lupo. Ci fu una simbiosi tra gli stranieri e noi, s’era ricreato quel famoso gruppo, quello di cui parlavamo prima. Molte furono in quel periodo le assimilazioni con la Rodrigo Chieti dei tempi d’oro. L’anno successivo fummo promossi nella gara a Jesi con un altro mio tiro da centrocampo all’ultimo secondo… il telecronista locale ancora sta piangendo di gioia… I nostri supporters partirono da Avellino con ben 8 pullman… il resto della città festeggiò con invasioni in piazze da tutta la provincia… sono emozioni difficili da trasmettere raccontandole così… ci devi vivere in quei posti per capire appieno l’affetto della gente, il calore che ti fanno sentire…
Siamo arrivati ai giorni nostri.
Sì, a 40 anni sono tornato, dopo altri campionati in serie minori, dalla mia famiglia, che reputo sia stata fondamentale per gli insegnamenti, i valori ed il sostegno che è riuscita a darmi; ho giocato a Chieti e a Pescara per poi scendere di categoria, con altri obiettivi, grazie anche alla mia attuale compagna Alessandra che ha arricchito la mia vita. Ho due splendidi figli, Fabio già laureato e Federico iscritto alla facoltà di medicina, giocatore dell’Intrepida Ortona che io alleno attualmente, una costante partecipazione alla nazionale italiana Over 40 con cui sono campione del mondo, ed ho deciso di chiudere la mia carriera domenica prossima, invitando alla mia festa tutti quelli che hanno permesso questo mio fantastico cammino e che io non dimenticherò mai.
E tutti noi abruzzesi ringraziamo Claudio Capone per averci fatto sempre felici nel vederlo giocare con il suo grande cuore che sempre l’ha caratterizzato, e per aver portato alto l’onore della nostra regione, e della città di Chieti in particolare, in tutt’Italia. Al Palaleombroni, domenica prossima, sono tutti invitati alla festa di Moses, che tanto ancora darà al nostro basket in veste di allenatore.
Grazie Moses!
Stefano Tortoreto